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Un viaggio a ritroso nel tempo... PDF Stampa E-mail
Scritto da Fabio Bertazzoni   

Un viaggio nel tempo a ritroso nei secoli fino ad arrivare all'anno 1000, l'anno della prima crociata. Famosa perché passò alla storia come la 'Crociata dei pezzenti'.....



..... armati ed equipaggiati a malapena per far fronte al lungo viaggio che li avrebbe portati in Terra Santa, migliaia di persone comuni si misero in cammino con la sola fede. Ma più di altri hanno rafforzato e percepito il senso del viaggiatore, perché viaggiare non ha mai significato solo la meta finale, l'arrivo ma è qualcosa di più intrinseco legato al proprio spirito d'avventura.

Si trattava di viaggi quasi sempre spaventosamente lunghi, in cui la sensazione costante di insicurezza gravava sul corpo e sullo spirito: colui che viaggia e camminava giorno dopo giorno, attraversando fiumi e boschi, alla mercé del freddo pungente o del caldo torrido, senza la prospettiva di un pasto caldo, doveva sviluppare un sesto senso per il pericolo, che gli permettesse di stare in vita e raggiungere la meta. Ma la vera paura del viaggiatore, specie di colui che viaggiava a piedi, era quella di perdersi, di vagabondare senza nessun aiuto, senza ripari: la paura della solitudine, di cadere vittima d´imboscate o il costante senso di solitudine.


L'inverno australe spazza l'Argentina, le perturbazioni provenienti dal Polo Sud stringono in una morsa di gelo il Paese facendo scendere le temperature abbondantemente sotto lo zero. Il mio costume da crociato pellegrino è insufficiente per affrontare questa improvvisa situazione meteorologica. Mi trovo a 4000 metri di altitudine nel villaggio di Abra Pampa; soprannominata la Siberia Argentina nell'estremo nord ad un centinaio di chilometri dalla Bolivia. L'idea è quella di attraversare le Ande, scendendo verso la Patagonia utilizzando lo stesso modo degli antichi, dei crociati.

La pesante cotta di ferro ed il cappuccio appesantiscono l'equipaggiamento (sistemato in un sacco di juta rinforzato con pelli) che con le riserve d'acqua nella ghirba (un'otre di pelle di capra) raggiunge i 52 chilogrammi.
Il passo lento scandisce le ore, le soste sono interminabili e anche quando riposo non levo la cotta perché non è come sfilarsi una maglietta. Il vento freddo toglie il respiro e il sole arrossa la pelle velocemente perché priva di qualsiasi protezione. Indosso degli stivaletti medievali, bassi senza tacco e fatti in pelle, i piedi non ancora abituati dolgono. Il buio scende velocemente e quando gli ultimi raggi scompaiono il freddo andino penetra nel corpo, avvolto dalle coperte cerco un rifugio di calore.


Il sole alto nel cielo mi scalda, la testa gira leggermente e a fatica riprendo il cammino. Alcuni lama si stanno abbeverando in una radura, l'acqua nella ghirba è quasi terminata così lascio il pesante sacco a terra e raggiungo la pozza, gli animali impauriti fuggono nelle radure che si perdono all'orizzonte. Bevo l'acqua filtrandola con una stoffa, il sapore è molto amaro è sgradevole, raggiungo la pista rimettendomi in cammino.
Tre giorni dopo ritorno nuovamente ad Abra Pampa completamente disidratato, il viso bruciato dal sole dei 4000 metri, senza creme e costantemente alla mercè del vento gelido.
Decido di prendere questi primi giorni come una prova generale, in fondo per non avvantaggiarmi sono partito senza allenamento fisico e mentale dall'Italia. Voglio il più possibile avvicinarmi all'aspetto psicologico dell'antico viaggiatore, del crociato pellegrino, riuscire a calarmi completamente nel personaggio. Ho cercato un luogo inusuale, inospitale e che mi mettesse a dura prova fin dall'inizio e che soprattutto non mi desse l'opportunità di barare.

Viaggiare come un antico è un'idea che si è evoluta in molti anni nei miei precedenti viaggi, poco alla volta ho lasciato, abbandonato le tecnologie, il materiale high-tec e mi sono iniziato a domandare come veniva vissuto il viaggio nell'antichità, quali difficoltà il viaggiatore andava incontro. Così ho scelto la figura del crociato che più di altri ha interpretato il vero senso del viaggio, un crociato lasciava tutto, famiglia, proprietà, ed ogni familiarità in luoghi lontani per intraprendere una vita nuova o semplicemente per riscattarsi di una vita di stenti e delusioni, e per molti significava anche non tornare più.


Un paio di giorni dopo il mio rientro ad Abra Pampa sono costretto da un serio infortunio dovuto allo sforzo fisico in altitudine a rimandare la partenza. L'infortunio più serio del previsto mi blocca per venti giorni, in questo periodo cerco di ridisegnare il progetto, capire quale approccio utilizzare per affrontare le Ande, compro due coperte (in totale 4 con il mantello).
Nel frattempo, l'Argentina diviene il secondo paese al mondo (dopo gli Usa) per morti e contagiati dell'influenza AH1N1. Il virus risulta essere molto più aggressivo che in Europa, la completa disinformazione mediatica e sanitaria fanno cadere l'Argentina in uno stato di psicosi collettiva, l'influenza si allarga a macchia d'olio tralasciando solo il Norest, dove mi trovo. Decido di passare un po' di tempo in Bolivia sperando che la situazione si normalizzi. Ma peggiora, così ritorno e riprendo il viaggio.

Un'altra perturbazione dal Polo Sud investe per la seconda volta il paese sud americano, mi trovo a San Antonio de los Cobres sotto la cordigliera orientale delle Ande a 3700 metri. La mattina della partenza un forte vento investe il piccolo villaggio, la temperatura alle nove di mattina è quasi a meno venti. Coperto dal mantello cerco di avanzare, mi manca il fiato, gli occhi mi bruciano per la polvere, poche persone camminano per le vie. Nevica.
Uscito dal villaggio seguo una pista che spazia in una radura che sembra rincorrere l'orizzonte, non posseggo bussole ne satellitari la via e immaginaria, ma perdersi qui è realmente difficile, in fondo basta sempre andare dritti. Nel pomeriggio rinuncio, il gelo mi ha piegato.
Mina Pirquitas, un piccolo villaggio al confine con il Cile, tento un'altra partenza: quota 4000 metri.
Il sole illumina il giorno, alcune vigogne da lontano pascolano indisturbate, il vento per l'ennesima volta si sferza con violenza sbalottandomi da un lato all'altro della pista, la temperatura alle 14 orario della partenza è di meno quindici. Un'anziana indios vedendomi in procinto di partire scuote il capo come monito di rinunciare.
L'ennesimo tentativo fallisce, e getto la spugna.


Prove e partenze, il fisico inizia a risentirne i dolori muscolari sono sempre più frequenti, mi ammalo in continuazione, febbri,dissenterie, influenza normale. Ma anche quando rientro nella civiltà non assumo medicinali, questo tipo di viaggio non me lo permette, lo stesso per reintegratori o defatiganti che mi permetterebbero un recupero muscolare rapido. Non di rado capita che i muscoli mi facciano male anche per otto ore consecutive. La dieta è solamente a base di frutta, formaggio e pane.
Decido di trasferirmi nella giungla, Parco Calilegua 600 ms, da una foresta tropicale si sale fino in quota 2500 m dove la vegetazione è tipica sub-alpina. Il caldo, l'umidità e gli insetti mi catapultano in un mondo nuovo, il costume insufficiente per il freddo andino si rivela eccessivo e inadatto per la foresta. Animali e insetti accompagnano il mio cammino, l'emozione che provo è forte.
Alcuni moschini neri pungono senza tregua, alla fine della giornata conterò sulle braccia e viso più di 20 punture, tutte infettate: alcune impiegheranno più di un mese e mezzo prima di guarire.

L'umidità, il peso del sacco e i pesanti vestiti mi trasformano in una fontana di sudore, prima di partire ho eliminato la cotta di ferro con il cappuccio del peso complessivo di 22 kg.
Giorni meravigliosi è intensi fanno da cornice al Calilegua, le notti passate nella giungla tra i rumori degli animali mi tengono sveglio fino alla mattina, impossibile dormire.
Quando la giungla perde il suo splendore lasciando posto ad una vegetazione brulla e secca mi sento soffocare. Lasciato il parco inizio a risalire la Quebrada (montagne che superano i 4000metri), numerosi sentieri s'inerpicano tra queste vallate immense. La paura di perdermi è costante, ma un'altra volta l'emozioni che provo sono indescrivibili, i condor si librano in un cielo cristallino e il silenzio che mi circonda è spettacolare. Le notti le passo nei casolari degli indios che si trovano all'interno di queste vallate, mi offrono cibo e acqua. Una mattina un indios si offre di farmi da guida dietro un compenso, le piste sono numerose ed è facile perdersi. Abituato all'altitudine l'indios procede velocemente, ogni mio sforzo di stargli incollato svanisce e presto mi ritrovo a camminare nuovamente solo. Seguo le impronte sul terreno ma non sempre è facile, attraverso dei precipizi a ridosso di una vallata, il vento si alza improvvisamente e per poco non perdo l'equilibrio scivolando sui sassi.

Il sole scompare e il freddo penetra nuovamente nelle ossa, l'indios è scomparso non l'ho più visto e se scende il buio non so come fare per proseguire. In lontananza alcuni cani abbaiano, un casolare.
Mi sistemo davanti al fuoco, l'indios mi offre una tazza di tè poi mi accompagna nel recinto dei lama dicendomi che la notte la posso passare lì. Ma un tappeto di escrementi e un'odore nauseabondo mi fa rinunciare con meraviglia del giovane, così opto per l'ovile delle capre e delle pecore più spazioso e con meno escrementi. Che notte !!!!
La mattina riprendo il cammino da solo, salutato il giovane come amici di sempre lascio il casolare. Una croce segna 4167 metri, una lunga discesa di quasi 6ore lungo una tortuosa mulattiera arrivo a Tilcara, un pittoresco villaggio.


La lunga mulattiera mette a dura prova i piedi, incontro due indios procedere velocemente. Un saluto, un' informazione sulla pista e via ognuno riprende il proprio cammino.
Torno a Salta, i piedi sono malconci fatico a camminare. Ma questa sosta rimette a dura prova le mie energie psichiche e fisiche.
Alla fine di questi cinque mesi i tentativi fatti per attraversare le Ande saranno dieci, dopo Tilcara il progetto di arrivare fino ad Usuhaia non era più fattibile, avevo perduto troppo tempo. Ho cercato nuovamente una volta ristabilitomi di proseguire ma psicologicamente non c'ero, faticavo ogni giorno di più ad armonizzare, alle volte mi trovavo distante da questa dimensione perché nonostante le difficoltà fisiche e metereologiche mi sono trovato a combattere contro le mie paure, le mie incertezze che sono poco alla volta emerse in questi mesi di tentativi. Per la prima volta mi sono sentito veramente piccolo davanti all'imponenza di queste montagne: le Ande.

Alla fine ne sono uscito sconfitto, e tutte le sconfitte sono dure da digerire. Il mio progetto si è arenato per una forma fisica e mentale che non ha mai brillato, ed è anche onesto mettere che non sono mai riuscito ad entrare in partita con le Ande. Potevo confrontarmi con qualcosa di più semplice, alla portata ma questo è il mio modo di viaggiare che mi ha sempre contraddistinto in tutti i miei viaggi, per me l'importante non è riuscire ma provare. Infatti penso che il vero fallimento sia nel non tentare e lasciare che i propri sogni rimangano tali.

Il costume era composto:
Un paio di calabrache di lana (non erano ancora stati inventati i pantaloni), maglie di lana grezza, un camice e gilè borchiato tipico medievale, guanti di lana di alpaca e un paio di stivaletti in stile medievale, mutandoni di lana.


Fabio Bertazzoni
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