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Giordania: Wadi Rum il deserto di Lawrence d'Arabia PDF Stampa E-mail
Scritto da Fabio   
Nel mese di dicembre del 1998, mi reco in Giordania per visitare la mitica città nella roccia: Petra. Casualmente in occasione di questo viaggio vengo a conoscenza di un deserto situato al confine con l'Arabia Saudita, descritto dai locali come un deserto unico: il Wadi Rum

Il tempo a mia disposizione è poco ma data la predilezione per i deserti, voglio ugualmente rendermene conto di persona. Giunto al villaggio di Fort Rum rimango senza parole dinanzi allo spettacolo cui assisto.
Tornato in Italia mi documento il più possibile su questa zona e scopro che è il deserto che ispirò Lawrence d'Arabia nei suoi racconti, e in cui si svolsero le sue incredibili gesta.
Qui l'ufficiale inglese, che parlava l'arabo e che era appassionato d'archeologia, tra il 1916 e il 1918 divenne il condottiero degli arabi alleati con gli inglesi contro l'Impero Ottomano. Le sue eroiche imprese sono raccolte nell'opera " I sette pilastri della saggezza" di cui fu autore nel '22.
La decisione è presa, al più presto attraverserò questo deserto a piedi.

Da marzo ad aprile svolgo un allenamento intenso anche perché questa volta, a differenza delle mie precedenti traversate, non potrò utilizzare il carretto poiché le piste sono invase da lunghi e profondi strati di sabbia.
Tutto l'equipaggiamento, compresa l'acqua li trasporterò a spalle con uno zaino dal peso complessivo di sessantacinque chilogrammi. Durante le sedute d'allenamento arrivo a trasportare fino ad novanta chilogrammi con lo zaino.
La Ferrino, oltre a fornirmi l'equipaggiamento ed a studiare le modifiche per lo zaino, realizza per me un sistema di cuscinetti da applicare sugli spallacci, che mi permetta di appoggiarmi ai bastoncini telescopici durante le brevi soste, senza dover togliere lo zaino dalle spalle.


Il ventidue maggio parto con destinazione Aqaba, a settanta chilometri da Wadi Rum.
La temperatura è molto alta e a mezzogiorno, nonostante la presenza di un leggero vento tocca i quarantacinque gradi. Alle quattordici, sono al villaggio-oasi di Fort Rum.
Nonostante la stanchezza del volo aereo devo preparare l'equipaggiamento.
L'intero volume dello zaino è occupato dalle sacche per l'acqua, tre da dieci litri e due da quattro; la tenda, un prototipo della Ferrino e il sacco a pelo li alloggio nella parte inferiore esterna dello zaino tramite della corde. Cibo, macchina fotografica con relativi rullini, medicinali vari, Gps, fornellino e altro sono sistemati nelle tasche laterali dello zaino. Uso sei borracce, tre delle quali le sistemo nello zaino e le restanti le aggancio alla parte anteriore degli spallacci, infine il cavalletto per gli autoscatti. Carico complessivo: quarantacinque litri d'acqua, più venti chilogrammi d'equipaggiamento.
La sola cartina che riesco a recuperare è quella venduta al posto di polizia, una cartina turistica dove è impossibile impostare le coordinate per il Gps.
Nel tardo pomeriggio faccio conoscenza con una guida beduina che m'invita a casa sua, i muri delle stanze non sono intonacati e l'arredamento, a parte una cornice con un fotografia che ritrae re Hussein, da poco scomparso, è inesistente. La sabbia fa da pavimento e le capre circolano liberamente da una stanza all'altra.
La moglie, trentaquattro anni ma ne dimostra sessanta, m'invita ad accomodarmi su una stuoia per terra e mi versa del tè. Presto la casa è invasa dai figli, che rallegrano con la loro spontaneità la povera casa. M'invitano a fermarmi per mangiare, la figlia più grande e la madre portano tre contenitori di vetro con tonno, sugo di cipolle e un altro intingolo che non riesco a identificare. Il pane beduino, avvolto in una sacca di plastica, è molto sottile e di forma circolare; è cotto nella sabbia. A turno si mangia (gli uomini e le donne non possono mangiare insieme). Affondiamo il pane nella ciotola e con le mani n'estraiamo piccole quantità inzuppate di sugo. Il pranzo dura una ventina di minuti, prima di congedarmi domando se è possibile scattare alcune fotografie ma la donna risponde che è assolutamente vietato, si possono fotografare solo i bambini. In assenza della madre la ragazza tuttavia mi dice che se voglio posso scattarle alcune fotografie, ma solo con indosso il velo, poi mi regala una pietra verde assicurandomi che serve come amuleto per tenere lontano i serpenti.


Il giorno seguente alle cinque di mattina mi sveglio, alle sei e trenta parto per affrontare il deserto. I chili dell'equipaggiamento si sentono ed avanzo con lentezza. Uscito dal villaggio il deserto si presenta imponente.
Per sorreggere la schiena utilizzo la cintura da body-building allacciata in vita. La pista è di sabbia molle e sprofondo ad ogni passo, non cado solo grazie all'utilizzo dei bastoncini telescopici. Percorro circa due km in un'ora, poi sono costretto a trovare un masso abbastanza alto sul quale appoggiare lo zaino e riposare una ventina di minuti. La temperatura alle otto di mattina segna trentacinque gradi, le mosche sono compagne costanti del viaggio. Controllo la direzione sulla cartina

ma è come trovarsi in un labirinto: la mappa è incompleta, alcuni jebel (montagne) non sono per nulla segnati, così per avanzare faccio riferimento ai più grossi ma sbaglio direzione e ignaro, prendo la pista che conduce in Arabia Saudita.


Bevo in continuazione più che altro per diminuire il peso dello zaino. Intorno alle 11 sosto nuovamente, è impossibile continuare, quarantasette gradi. Mi stendo tra due rocce riparato dalla coperta lunare nell'attesa che le ore più calde passino, un forte vento a più riprese mi fa volare l'accampamento provvisorio, così decido di montare la tenda anche perché non sopporto più i fastidiosi insetti.
Ore quattordici e trenta: riparto, controllo ancora la cartina senza sapere di essere sulla pista errata. Dopo un'ora e quindici in lontananza, incontro una pattuglia di polizia del deserto sui cammelli in perlustrazione. Mi domandano in inglese dove sia diretto, rispondo al Rakehbt Al Wadak.
....Tutto un giorno di cammino per nulla!! Ora devo tornare indietro, come m'indicano, ma quello che più mi preoccupa è che tutte queste montagne sembrano uguali, un vero labirinto.


Ore diciassette e cinquanta, stravolto monto l'accampamento vicino ad una radura, sono talmente stanco che non riesco neppure a fotografare, ho solo la forza di mangiare. Prima di addormentarmi prendo, un'efficace defatigante che avevo già utilizzato nei miei precedenti viaggi che regolarmente mi fornisce l'Enervit.

Lunedì venticinque, sveglia alle quattro e trenta. Ieri in totale stando alla cartina ho percorso quasi tredici chilometri in sei ore e mezzo di cammino. L'unica preoccupazione di questa mattina è cercare la pista giusta, a quattro chilometri devio a destra in un immenso siq (canyon) che si perde all'orizzonte, tutt'intorno wadi (valli) e jebel dalle dimensioni diverse. Avanzo, sosto per bere e presto mi accorgo di non capire come raggiungere le dune di sabbia segnate sulla cartina. Attraverso lateralmente il siq entrando in un wadi, la pista è in salita. Ogni tanto sono costretto ad inclinarmi con il corpo facendo leva sui bastoncini per distribuire il peso dello zaino su tutto il corpo. Il sudore s'incolla al viso, la schiena è completamente bagnata. Procedo con casualità e dopo un'ora e venti trovo la pista per le dune di sabbia. E' incredibile come in mancanza di punti di riferimento non riesca a calcolare la distanza di camminata tra un punto e l'altro.
Ore nove trenta, inizio a salire la duna.

Ad ogni passo sprofondo fino a coprirmi gli scarponcini, ma le fotografie sono d'obbligo e quest'operazione mi fa perdere parecchio tempo. Rischio anche, un paio di volte, di cadere e rotolare fino in fondo; riparto ma i chilometri che riesco a percorrere sono pochi. Ormai fa troppo caldo e devo fermarmi. Mi sistemo sotto la parte in ombra di una roccia e finisco di mangiare gli avanzi di ieri. Tento di dormire ma le mosche mi tengono sveglio.
Ore tredici e quarantacinque riparto, il termometro segna cinquantasei gradi. Seguo l'unica pista non dovrei sbagliare. Arrivo alle incisioni rupestri, testimonianza degli antichi popoli che abitarono il deserto, scatto delle fotografie e riparto. Dopo le sedici la luce del sole si colora ed è il momento magico per fotografare. Mi accampo a cinquecento metri dai resti della casa di Lawrence d'Arabia, è un momento di grand'emozione.


Martedì ventisei, la mattina è sempre il momento migliore per camminare, in due giorni ho bevuto sedici litri d'acqua e il peso dello zaino è cambiato, ora procedo più velocemente. Visitati i resti dell'abitazione di Lawrence scendo un pendio di sabbia molle e raggiungo la radura del giorno prima, avanzo spostandomi a destra e a sinistra, cercando di trovare i passaggi di sabbia più dura.
Durante una sosta noto un accampamento di beduini, anche se è distante decido di raggiungerlo. Nella tenda c'è solo una ragazza di circa diciassette anni intenta a lavorare il latte in un otre di pelle. Mi accoglie e approfitto dell'ombra per riposare un paio d'ore, e bere del tè che gentilmente mi offre, riempiendo il bicchiere ogni volta che termino di bere. Anche lei si rifiuta di farsi fotografare, mi spiega che quando compiono dieci anni è vietato ritrarle. Visto che al campo non c'è nessuno oltre lei mi dice che se non cerco di fotografarla non si metterà il velo in faccia. Discorriamo del più e del meno come se ci fossimo sempre conosciuti, in certi momenti l'ilarità prende il sopravvento e ci lasciamo andare in risate senza fine che riusciamo a calmare solo dopo alcuni minuti con le lacrime agli occhi. -mi racconta che è stufa di vivere nel deserto e che le piacerebbe andare a vivere ad Aqaba. Vorrebbe studiare e lavorare, sposarsi e avere tanti figli; la vita del deserto non l'attrae, non le piace più. Mi dice che sono pazzo ad attraversare il deserto a piedi da solo nei mesi di maggior calura, loro non lo farebbero mai. L'aria è calda anche se sotto la tenda si sta bene, la lunga tenda è divisa in cinque reparti, ognuno ha una funzione specifica: dalla cucina, al salotto, alla camera da letto (divisi uomini dalle donne). Di notte, come riparo dal forte freddo dell'escursione termica, vengono srotolate delle pelli (a volte solo tele), agganciate alla parte superiore della tenda.
Riparto alle nove quaranta, l'aria è ferma e anche il timido vento di questa mattina presto è scomparso. La temperatura segna quarantadue gradi. Mi dirigo verso lo jebel Burdah, ma ho le idee confuse e non riesco a capire dove effettivamente sia, anche se è una montagna panoramica contraddistinta da un arco di roccia. Il problema è che queste montagne mi sembrano tutte uguali e le distanze tra l'una e l'altra sono di alcuni chilometri, si rischia di girare per nulla come mi è già accaduto per trovare le dune di sabbia. Ore undici e trenta, non c'è vento e la testa, per il forte caldo mi sembra scoppiare, cerco un po' d'ombra vicino alle rocce ma nelle immediate vicinanze non c'è nulla così sono costretto ad avanzare per una ventina di minuti.


Oggi è il terzo giorno che devo cedere alla sosta forzata, riparato dalla coperta termica sto bene ma, se mi chiudo completamente, sudo come se fossi in una sauna, e se lascio aperti degli spiragli entrano le mosche che mi assalgono. Il termometro anche oggi segna cinquantotto. Unico compagno di questa mia sosta è una coppia di rondini del deserto che, attratte dal color argenteo della coperta, volano radenti. Alle quattordici e un quarto non resisto più e m'incammino, c'è un silenzio surreale. In genere consumo un pasto al giorno, non è molto ma quando mi fermo per la lunga sosta sono troppo stanco per cucinare.
Lungo tutto il cammino, qua e là, oltre a numerose impronte di cammelli se ne trovano di tutti i tipi, dallo scorpione al serpente alla gazzella ed altre che non riesco a decifrare.
Di pomeriggio il tempo scorre rapidamente, quando sono le 16 per me è come se fosse sera anche se in realtà il buio non arriva prima delle 19. Fotografo, operazione questa che mi tiene occupato oltre un'ora.


Mercoledì ventisette, inizia un nuovo giorno: il quarto. Non so quanti chilometri ho già percorso, stando alla cartina quarantacinque ma potrebbero essere di più visti i continui spostamenti da una parte all'altra. Altri nove litri di peso in meno nello zaino, superata una gola che divide in due il deserto discendo per poi risalire. Controllo più volte la cartina: lo jebel Burdah è l'ultima montagna segnata ma qui le montagne sono quattro e una più distante dell'altra e non è possibile capire quale sia quella esatta. La fortuna mi assiste, in lontananza scorgo un beduino con alcuni cammelli, mi raggiunge. Purtroppo parla solo arabo ma capisce che sono alla ricerca di Burdah e me la indica a grandi linee, poi insiste per preparare il tè. Ho fretta ma sarebbe scortese non accettare. Salutato il beduino, dopo un'ora e dieci devio per un siq, si sale nella sabbia molle fino a che anche le ultime tracce di animali scompaiono. Le alte pareti di roccia creano ombra, ho il tempo di riposarmi. Decido di lasciare lo zaino e di proseguire senza anche perché un'alta duna di sabbia si prospetta lungo il cammino.

Superata l'altura si scende, le pareti si stringono fino a formare una curva e si prosegue. Torno indietro a prendere l'equipaggiamento, certo che ora non sarà facile risalire con tutto. Superate le dune cammino per altri cinquanta minuti oltre la curva, poi improvvisamente il passaggio della gola è sbarrato dall'intreccio di una fitta vegetazione, di alberelli e cespugli. Torno indietro. Raggiunta la deviazione del canyon costeggio lo jebel per tutta la sua larghezza. Il tempo scorre velocemente e alle nove mi fermo per i crampi allo stomaco. Mangio e dopo venti minuti riparto, proseguo fino alle undici e alla fine vi rinuncio lo jebel Burdah è introvabile. Non vedo nulla di riconoscibile, senza contare che da questa parte ci sono un'infinità di montagne non segnate sulla cartina. Quando tornerò a Fort Rum verrò a sapere che la cartina è stata fatta apposta per scoraggiare i turisti dal viaggiare senza guide e che tutte le zone al di fuori di Wadi Rum non sono adeguatamente riportate perché considerate non turistiche.
In genere le ore centrali della giornata riposo ma oggi decido di far l'incontrario e di camminare, quando sono circa le undici invece di cercarmi un riparo proseguo quasi senza interruzioni fino alle quattordici e quaranta quando la temperatura è scesa a cinquantaquattro gradi. Decido di fare una lunga sosta, sono talmente intontito che non capisco più nulla. Ho anche un forte giramento di testa che mi preoccupa, poiché svenendo a questa temperatura in queste zone non avrei molto scampo. Nello zaino mi sono rimasti solo undici litri d'acqua, ne travaso due nelle borracce e ne getto sulla sabbia 3 litri per alleggerirmi ulteriormente. Considerando che bevo al massimo 4 litri in un giorno è inutile portare peso eccessivo. Certo che se penso a tutte le volte che ho seguito dibattiti sulla disidratazione nel deserto dove i dottori affermano che un uomo, senza sforzi, deve bere otto litri di acqua in un giorno se no va incontro ad una morte certa. Ho la prova che per me non è vero.


Alle diciotto sono ancora fermo nello stesso punto disteso nella sabbia, penso di non riuscire a muovermi, in tutte queste ore non sono neanche riuscito a montare la tenda sto pagando cara la scelta di camminare nelle ore centrali della giornata. La dissenteria non è forte ma giunge puntualmente alle quattro di mattina.

E' il quinto giorno, ieri devo aver percorso quasi ventisette chilometri, completamente su sabbia molle e stamattina ho un leggero indolenzimento ai muscoli. Il viaggio è un sollievo ora che lo zaino è leggerissimo così, anche il continuo sprofondare nella sabbia non crea enormi disagi.
Viaggio senza cappello per la prima volta perché il cielo è coperto dalle nuvole e la temperatura per tutto il giorno non supera i quarantacinque gradi. L'acqua che bevo ormai ha un sapore sgradevole, ho terminato le buste di tè e arancia. Nel primo pomeriggio raggiungo la fontana di Lawrence, il luogo in cui egli abitualmente si dissetava, su una roccia vi sono alcune iscrizioni dei Nabatei, l'antico popolo che abitò Petra. Nelle immediate vicinanze c'è un altro accampamento di beduini, ne approfitto per riposarmi. Gli uomini sono al lavoro a Fort Rum, ormai poco distante; anche qui di giorno rimango solo con le donne. C'è solo una ragazza con sua madre. Con il consenso della donna e pagando alcuni dollari giordani convinco la ragazza a farsi fotografare.

Alle 16 riprendo il cammino verso Fort Rum, gli ultimi quattro km sono i più pesanti; butto via la restante acqua perché divenuta calda. Una rondine del deserto incuriosita dalla mia presenza mi segue volando a non più di un metro sopra di me, rimane in mia compagnia per una decina di minuti, alle diciassette e trenta sono all'oasi dove termino il viaggio nel deserto di Lawrence.
Dopo una doccia di 40 minuti è incredibile la sabbia che è scesa dal corpo. Mi corico nella tenda dell'accampamento.
Alle 5 di mattina in perfetto orario arriva il taxita che mi aveva accompagnato all'andata da Aqaba, ripartiamo subito per i 100 chilometri di strada asfaltata. Alle 8 devo prendere un aereo postale che mi riporterà ad Amman. In tutto i passeggeri sono 10, l'aereo decolla in perfetto orario. Prima di arrivare ad Amman dovrà fare una decina di fermate extra per caricare o scaricare posta e merci; non resisto ai continui sali e scendi e voli radenti così inizia il calvario del mio stomaco. Quando finalmente arriviamo a destinazione mi gira talmente la testa che mi devo sedere per terra per alcuni minuti.
Ho l'intera giornata libera il volo per l'Italia, è fissato per le 19 quindi passo la giornata girando per le vie d'Amman.

Racconto di Fabio
 
 

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