"Un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di un sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti”.…così scrive Pablo Neruda in una sua poesia e sono sicura che proprio questo insieme di emozioni sia dentro di me da quando siamo tornati dal viaggio in Africa. Chi c’è stato forse già lo conosce, lo chiamano MAL D’AFRICA, io non ci credevo, ma ora...
Â…ho nella mente e nel cuore i ricordi di quella terra, della sua gente e anche dei momenti felici trascorsi con chi ha condiviso con noi questa vacanza indimenticabile…e ho anche una voglia matta di ritornarci. Insieme a mio marito Andrea e la nostra Aprilia Caponord, siamo partiti alla volta di Dakar. Proprio così, Dakar capitale del Senegal, città affascinante per ogni motociclista, per molti legata al sogno della corsa Parigi-Dakar. L’itinerario, proposto dall'associazione Motovacanze, si sviluppa dall’Italia, passando per Francia e Spagna, portava fino in Marocco, per poi attraversare il deserto della Mauritania ed arrivare in Senegal a Dakar. In precedenza non avevamo mai partecipato a viaggi di gruppo, ma l’idea di poter arrivare fino al lago rosa ci ha convinti a partire senza troppe preoccupazioni.
Dino, il presidente di Motovacanze, è partito con altre otto moto il 23 dicembre; mentre Daniele, dello staff, è stato il capogruppo delle sei moto partite da Ventimiglia il 27 dicembre. I primi due giorni di viaggio e di autostrada sono stati un po’ monotoni, ma già all’imbarco nel traghetto ad Almeria qualcosa era diverso…la gente!! I marocchini erano dappertutto con le auto e i furgoni un po’ scassati caricati in modo disumano pieni di porte, frigoriferi … alcune vetture non si accendevano neppure e sono state imbarcate a spinta dalle persone. Il Marocco, più della Mauritania e del Senegal, offre ambienti diversi, paesaggi indimenticabili, ci sono i monti dell’Atlante innevati, le gole scavate dai fiumi, le rosse colline alberate e le immense distese di sabbia e pietre del deserto del Sahara. Le piccole città del Marocco hanno solo la strada principale asfaltata, lungo la quale c’è un brulicare di persone, animali, bambini. Le capre e le pecore sono dappertutto, vengono anche caricate sui motorini; nelle auto viaggiano sempre dai cinque agli otto passeggeri…diciamo che lo stile di vita è leggermente diverso dal nostro.
In cinque giorni abbiamo attraversato il Marocco “evitando” le città imperiali e la costa, scegliendo un percorso più interno dietro ai monti dell’Atlante. Ogni minuto il paesaggio catturava sempre più i nostri occhi e la nostra mente, ambienti così diversi, paesi lontani uno dall’altro, case poco curate, uomini e bambini che ti osservano lungo la strada in attesa di un saluto. La moto corre sulla stretta striscia d’asfalto molto spesso rovinata e dissestata per raggiungere piccoli nuclei abitati e poi attraversare distese di pianure aride di terra rossa, colline piene di palme e fichi d’india… mi tornano alla mente tantissime immagini come se fossi ancora lì, in mezzo ai bambini che corrono verso le moto ferme al distributori con i loro occhi curiosi …e poi gridano in un italiano abbastanza comprensibile: “ITALIA, CAMPIONI DEL MONDO!!”
Da Nador siamo arrivati fino a Midelt, nell’albergo Kashbaa Asmaa abbiamo consumato la nostra prima cena marocchina a base di piatti tipici per entrare in contatto con la cultura del luogo che ci ospita. L’albergo è una bella Casbah ben curata nei particolari, per cena nella sala ristorante con tavoli bassi ottagonali, divani al posto delle sedie e tappeti sia a terra che alle pareti assaggiamo prima una zuppa di verdura e poi una “tajine”. Questo piatto tipico consiste in uno stufato di carne che può essere di agnello, pollo o vitello preparata insieme alle verdure e aromatizzata con erbe e spezie. La Tajine prende il nome dal contenitore in cui viene cotta la carne, un piatto basso di terracotta scura o arancione con un alto coperchio di forma conica smaltato e decorato. A dicembre la temperatura staziona intorno ai 15- 20 gradi, ma mattina è facile trovare le moto ghiacciate e il termometro intorno allo zero. Dalla finestra dell’albergo il panorama toglie il fiato, montagne innevate illuminate dal sole.
Il secondo giorno in terra marocchina ci ha condotto fino a Ouarzazate. Bella cittadina, famosa per gli studi cinematografici. Per raggiungerla siamo passati attraverso la valle dello Ziz che inizia dopo il famoso tunnel del Legionario e offre paesaggi di palmeti circondati da alte montagne per passare poi ad Er-Rachidia e continuare fino alle Gorges Du Todra. Il tragitto supera villaggi berberi e il fiume dalle acque cristalline, la gola è stretta e la roccia disegna fenditure alte fino a trecento metri. Visita d’obbligo agli ATLAS Studios di Ouarzazate, centro di produzione cinematografica del Marocco, è possibile entrare nei set accompagnati dalla guida per vedere il monastero tibetano di “Kundun”, l’aereo utilizzato ne “Il gioiello del Nilo”, i tempi egizi de “Asterix e Obelix missione Cleopatra”… e altre costruzioni utilizzate per moltissimi film come “Il gladiatore”, “Il tè nel deserto” o “007 zona pericolo”. Da qui abbiamo fatto una deviazione sul percorso previsto, quindi ci siamo gustati una passeggiata sulla spiaggia di Agadir, lasciate le montagne e arrivati alla costa anche la temperatura è aumentata, 28 gradi e piedi a bagno nell’oceano Atlantico. Per festeggiare bene la fine dell’anno ci siamo incontrati con il gruppo di motovacanzieri partiti alcuni giorni prima di noi e da quel momento il viaggio è diventato uno, quindici moto e diciannove impavidi motociclisti alla conquista di Dakar.
Per arrivare da Tafraoute a Laayoune abbiamo percorso una strada ci ha permesso di attraversare villaggi berberi con case fatte di pisè, ovvero mattoni di fango, correre lungo la strada costiera per entrare nelle regioni dell’ex Sahara spagnolo. Le spiagge selvagge sono in gran parte deserte, qua e là solo capanne di pescatori battute dal vento ancorate al terreno grazie alle reti da pesca; lungo l’oceano ci sono anche relitti di navi ancora visibili tra le onde. Dall’ingresso nel Sahara marocchino, per tutto il deserto della Mauritania il vento non ci ha mai abbandonato. Dopo le dieci del mattino, il vento inizia a soffiare e la sabbia sottile, leggera, impalpabile che ti penetra dentro… in bocca, nelle serrature delle borse laterali, nell’apertura delle visiere dei caschi.
Laayoune è la principale città del Sahara Occidentale, conserva poche testimonianze del passato ed è presidiata da militari a causa dell’occupazione da parte dell’esercito marocchino che vuole continuare avere il potere sulla zona; a parte i continui posti di blocco che si incontrano lungo la strada soprattutto nei pressi delle rare città, arrivati nella zona abitata non si percepisce alcuna tensione. Il Sahara Occidentale è una zona desertica spazzata dal vento, il deserto qui viene chiamato “hammada”, termine che indica un deserto piatto, arido, inospitale per lo più di sabbia chiara e pietre.
Tappa successiva è Dakhla. L’unica cosa che abbiamo incontrato nei 550 Km di sabbia affrontati sono state solo poche tende di berberi nomadi, immerse in una nebbia bianca. Arrivati però a destinazione, nel hotel Sahara Regency ci concediamo un tuffo rigenerante in piscina, all’ultimo piano dell’albergo. Anche il giorno successivo, che ci portati fino a Nouadhibou, il paesaggio è rimasto lo stesso, facendoci sorgere un interrogativo: come fanno quelle persone a vivere continuamente immersi nella sabbia, lontani da tutto e da tutti? Forse però è proprio questo che li rende più felici e meno stressati di noi… In Mauritania, terra di collegamento tra mondo arabo e Africa nera, abbiamo attraversato solo due città in settecento chilometri di strada: una subito dopo il confine con il Marocco, l’altra la capitale Nouakchott.
Il passaggio alla dogana tra Marocco e Mauritania è stato un po’ preoccupante; avevamo delle notizie su 8 km di pista battuta nella “terra di nessuno” in mezzo alle mine e ai trafficanti. Arrivati lì, dopo un’ora di controllo dei passaporti in Marocco ci hanno fatto passare da un cancello in mezzo al nulla e poi pista. In realtà erano circa 3 km, in alcuni tratti i passeggeri sono dovuti scendere dalle moto perché c’era troppa sabbia, in altri punti eravamo tutti insieme a spingere una Goldwing un po’ troppo lunga e un po’ troppo bassa per quel percorso, ma alla fine ce l’abbiamo fatta a trovare la strada giusta e arrivare alla dogana Mauritana. Alla frontiera ci aspettava la nostra guida con un pick-up che ci avrebbe accompagnati fino al confine con il Senegal trasportando la benzina visto che per cinquecento km non avremmo trovato distributori. A 40 km dal confine c’è Nouadhibou, città che si trova nella penisola di Cap Blanc, una lingua di deserto che si prolunga sul mare e che è rimasta priva di collegamenti stradali fino al 2005. Nella periferia della città i bambini giocano scalzi, a volte nudi, in mezzo alle immondizie, le capre lungo la strada mangiano quello che trovano, sacchetti e sporcizia.
Lungo la strada ecco un problema: il TDM di un compagno di viaggio si ferma. Proviamo a ripararla, ma la pompa della benzina si è rotta così dopo alcuni tentativi carichiamo la moto sul pick-up e proseguiamo. Arrivati all’albergo, scaricati i bagagli, non ancora stanchi di tutti i km fatti, abbiamo ancora voglia di moto e di avventura. Seguendo il pick-up lungo una pista arriviamo al faro sulle scogliere per vedere le foche monache, peccato che lì c’erano solo pescatori e le foche non si sono viste. Prima di ritornare al hotel siamo andati anche a vedere un “cimitero di navi” abbandonate costituito da pescherecci auto-affondati per incassare i soldi delle assicurazioni. I cinquecento km di strada tra Nouadhibou e Nouakchott sono perfetti, appena asfaltati lo scorso anno. La strada che porta alla capitale è spazzata dalle tempeste di sabbia per 200 giorni all’anno, e rende onore al nome stesso della città, Nouakchott, che significa “luogo dei venti”. Le dune di sabbia rossa circondano e accarezzano la strada, intorno a noi c’è uno spazio immenso pieno di colline proprio come le immagini dei libri. La città non è nulla di speciale: appare grande, caotica e malridotta.
Ultimo giorno con le moto, partenza all’alba. In sella verso il confine tra Mauritania e Senegal, di nuovo tre ore fermi per questioni burocratiche. Un’ora prima di traghettare sul fiume Senegal e poi rinchiusi con le moto in un recinto finché tutti i visti e le assicurazioni con erano pronte. Rosso è la porta d’accesso all’Africa nera. Alla dogana cambiamo la guida locale e conosciamo Nouha, il nostro accompagnatore è molto simpatico e parla molto bene l’italiano. Quando tutti i documenti sono sistemati ripartiamo per gli ultimi 370 km verso il porto di Dakar; alle 17.00 gli spedizionieri ci attendono al container per caricare le moto. Già da qualche km prima del confine il paesaggio cambia: il deserto e le dune lasciano piano piano spazio alla vegetazione e alla savana. Il clima è tropicale, il paese è bagnato da alcuni fiumi che facilitano la coltivazione dei campi e la raccolta di frutta e verdura. Ogni città attraversata è ricca di mercatini. Lungo la strada uomini e donne vestiti con abiti dai colori sgargianti vendono cocomeri, papaia, meloni e oggetti di artigianato.
Si vedono anche i primi baobab, alberi simbolo per il Senegal con il caratteristico tronco tozzo e grosso e i rami deformi simili a radici. La strada che da Rosso porta a Dakar non è proprio costituita da un asfalto omogeneo: enormi buche in mezzo alla via rallentano la corsa, oltre che rappresentare un notevole pericolo. A causa dell’asfalto poco liscio, della sabbia e del vento, che ci ha costretto a correre inclinati per centinaia di km, le gomme hanno risentito molto di quest’ultimo tratto: qualcuno, l’ ultimo giorno, praticamente correva con le tele. L’arrivo a Dakar è stato un po’ traumatico, il traffico è spaventoso: autobus, auto e taxi sono dappertutto, mescolati a gente a piedi e a carri trainati da asini o cavalli. Si respira un’atmosfera cosmopolita e soprattutto si respirano… gli scarichi delle automobili. La città è un concentrato di persone, caos, sporcizia, rumore… a volte durante le soste in mezzo al traffico eravamo assaliti da venditori particolarmente insistenti.
Comunque non c’era tempo da perdere al porto ci attendevano. Siamo arrivati con sole tre ore di ritardo e, come temevamo, gli spedizionieri non sapevano proprio come fare a legare le moto nel container. Ci siamo armati di pazienza e, raccolte le ultime forze, ci siamo messi noi a caricare le motociclette e a fissarle con le corde. Abbiamo finito mezzanotte circa, ed esausti, ci siamo diretti verso il più bel hotel di Dakar. Forse la tappa più faticosa, ma anche la più bella. Passare dalla sabbia alla savana, dai berberi ai tuareg ai wolof, essere “rinchiusi” due ore in un recinto e poi vedere baobab, avvoltoi e… l’Africa Nera.
Ormai la strada è finita, 2 continenti, 6 stati, 13 giorni e quasi seimilacinquecento km percorsi, non un viaggio, ma un’avventura e noi possiamo dire “C’ERAVAMO!!” Gli ultimi due giorni a Dakar sono stati di vacanza e ci volevano. Abbiamo visto il lago rosa, tappa d’arrivo della Parigi-Dakar, il cui ideatore, Thierry Sabine, viene celebrato con un monumento in città ideatore. Il lago è proprio rosa, nell’acqua c’è una densità di sale tale da tenere a galla qualsiasi cosa si immerga. Giretto tra le dune in fuori strada, passeggiata sull’oceano dove sfilano auto, moto e camion della Dakar e poi visita ad un villaggio senegalese. I piccoli del villaggio sono ricoperti di polvere e di sabbia… gli occhi dei bimbi che ti guardano e ti chiedono continuamente “Madame cadeau?”(signora regalo). Le piccole manine che ti cercano e ti prendono, ad ogni bimbo a cui regali qualcosa ce se sono almeno altri dieci che arrivano… Ritornando all’albergo abbiamo anche provato a cercare la scuola di Fabrizio Meoni, ma quando Nuoha è riuscito, chiedendo alla gente, a capire dove fosse era ormai troppo tardi…peccato. Abbiamo trascorso l’ultimo giorno in giro a visitare la città, poi con una barca siamo andati all’isola de Gorée, circa 3 Km ad est di Dakar. Viuzze strette, atmosfera mediterranea, grandi case in stile coloniale. Abbiamo visitato la Maison des Esclaves, una specie di grande casa dove arrivava gente da tutta l’Africa, ignara della sorte che li attendeva. Da qui infatti, ogni giorno, circa 150 persone partivano per l’America venduti come schiavi. Memorabile è stata la passeggiata lungo i vialetti dell’isola eravamo letteralmente assaliti dai venditori ambulanti, potevamo comprare di tutto: braccialetti, cappellini, statue di legno, vestiti tipici. Una vera è propria lotta a contrattare sul prezzo. Alle due di notte un aereo ci ha riportato a Milano, con il pensiero al viaggio appena concluso e a … quelle emozioni che fanno brillare gli occhi…
Un ringraziamento va sicuramente alle donne, Cosetta, Germana e Marina, che hanno supportato e sopportato i loro mariti, sono state simpatiche compagne di viaggio. Agli uomini, Norberto, Bruno, Stefano, Michele, Claudio, Daniele, Pierpaolo, Roberto, Ezio, Giamba e Totto, per aver affrontato con le loro moto tutte le avversità della strada ed essere arrivati a destinazione tutti interi nonostante le cadute. Grazie a Fabrizio (belli capelli) sempre dietro a noi sulla strada, compagno di mille risate ed mille abbuffate. Per ultimi, ma proprio per questo indispensabili, una grazie dal profondo del cuore a Dino e Daniele (bello ciuffo) perché anche nelle difficoltà incontrate sono riusciti a creare un bel clima nel gruppo e accompagnarci un questo viaggio, un’esperienza di vita che ci ha cambiati e ha lasciato un segno indelebile. GRAZIE, GRAZIE
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