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Tanto ci ritorno PDF Stampa E-mail
Scritto da Mauro Vezzi   

'Tanto ci ritorno'.
Questo è quello che dissi circa 25 anni fa.
Poi le cose cambiano, gli eventi si susseguono e quella che sembrava una frase banale, diviene un lontano ricordo.


Dal golfo di Baratti, per salire a Populonia, la strada si avvolge in un susseguirsi di curve e controcurve, tutt'intorno, antiche vestigia etrusche ci accompagnano nella salita.
Qualche centinaio di metri mancano ancora prima di raggiungere l'ampio parcheggio ai piedi del castello dell'omonima località. Sul gomito di una curva c'è sempre qualche auto a segnalare il luogo esatto.  Con un po' di fortuna riusciamo a trovare un posticino per la macchina tra sassi e solchi scavati dall'acqua.
Chissà se questa sera riusciremo anche a venirne fuori.
In tutti questi anni non è la prima volta che mi fermo qui, leggo il cartello arrugginito che indica il nome della località e mi dico:
'prima o poi ci ritorno'
Finalmente ci siamo.
Mia nipote, una bambina di nove anni, non sta più nei suoi panni; a dire la verità sono io che non vedo l'ora di ripercorrere il ripido sentiero che ci avrebbe condotto al mare.
'sarà ancora come lo ricordo?'
Borse, zaini, pinne, maschera. Tutto sembra pronto.
'io vengo in ciabatte'.
L'idea è fatta prontamente rientrare, il sentiero deve essere affrontato con le dovute cautele e con l'appropriato abbigliamento. Scavalchiamo la recinzione che divide il parcheggio dal sentiero, aiutati da una scaletta di legno posta a quello scopo, già questo primo banale ostacolo ci mette addosso un vago sentimento d'avventura.
Dopo pochi metri il viottolo si biforca. Frugando in giorni lontani, riesco solo a ricordare che uno dei due ci avrebbe condotto molto distante da quella che è la nostra meta e attraverso un percorso più impervio. Decidiamo per quello che punta verso il basso.
Naturalmente quello sbagliato.
Non è troppo tardi quando ce ne accorgiamo, con qualche difficoltà e qualche graffio riguadagniamo la via maestra.
Il sentiero, dopo un primo tratto pressoché pianeggiante, precipita in una ripida discesa che mette a dura prova le nostre capacità escursionistiche, già dopo qualche centinaio di metri, mia nipote inizia la temuta nenia 'quando si arriva? Io sono stanca'.
Qualche battuta, serve a distogliere la sua attenzione, perlomeno fin quando…
Ampie cavità si aprono qua e là nel terreno. Sapevo che dovevano esserci, sono lì da più di duemila anni.


La bambina corre dall'una all'altra, forse azzardando un po', vorrebbe spingersi dentro, chiede cosa siano. Noi, mostrando una sicurezza che non ci appartiene, ci avventurammo in spiegazioni ai limiti del plausibile, poi, tagliando corto, 'dai, dobbiamo proseguire. Ci fermiamo al ritorno.'
Il percorso si è fatto ora al limite dell'impraticabilità.
Radici affioranti fungono da briglie, profondi solchi scavati dalle acque meteoriche hanno trasformato il viottolo in un canyon (ok, forse esagero, ma solo un po').
Finalmente, nella volta vegetale, si apre uno spiraglio, pensiamo di essere quasi arrivati, ma la vista del mare laggiù in lontananza, raffredda i nostri bollenti spiriti.


Il sentiero, intanto è ora divenuto roccioso, la percezione dell'avvicinamento alla costa è tangibile. Ecco finalmente aprirsi la vegetazione ed apparire sotto di noi l'alta costa rocciosa. L'ampio aggetto pietroso si affaccia a precipizio sulla distesa blu, davanti a noi, neppure troppo lontana, l'isola d'Elba ci saluta.


Da qualche parte dovrebbe esserci un passaggio per scendere fino al mare.
'Venite!'
In quel punto siamo costretti ad accucciarci reggendosi con le mani.
'Accidenti! Proprio qui'
Qualcuno non aveva trovato niente di meglio che appagare i suoi bisogni fisiologici proprio in mezzo all'impervio passaggio.
Riusciamo a schivare l'ultima insidia e finalmente, dopo pochi altri salti da stambecco, eccoci arrivati.
La 'Buca delle fate' si apre davanti ai nostri occhi. Lo spettacolo è di quelli degni di essere contemplati, tento di dire qualcosa per farlo notare a mia nipote.
Lei, per tutta risposta:
'metti la maschera e andiamo in acqua'. Il paesaggio resta bellissimo anche sotto la superficie. Qua e là piccoli branchi di pesciolini colorati non ci degnano di uno sguardo.
Ogni tanto qualcuno poco più grande, sfila veloce di fronte a noi. La bambina, estasiata da quella prima volta, non sta un attimo zitta, è un continuo chiamare e gridare e chiamare di nuovo:
'Zio!Zio!Zio!' e poi suoni gutturali distorti dal boccaglio.
Indica tutto, ma proprio tutto.
Quell'alga che sembrava un fiore, quel pesce intento a pascolare tra i lunghi filamenti verdi che ondeggiano assecondando la corrente.
Sul fondo, sotto di noi, vedo qualcosa avvolgersi in spire brunastre. La perdo di vista nell'attimo stesso in cui mi volto per richiamare l'attenzione della bambina.
Il suo interesse è ora attirato da una povera medusa finita in mezzo ai bagnanti.
L'animale non sembra per niente in salute, riesce a stento a muovere i tentacoli opalescenti, la ritroveremo quella sera in un anfratto in balia delle onde; sebbene inoffensiva, non mancherà di impaurire la mia compagna di snorkeling. La bambina è combattuta tra l'avvicinarsi in prima persona all'essere molliccio, o il mandare avanti me in avanscoperta.
Alla fine è mia moglie che mi viene in soccorso dandomi il cambio; e così via per tutta la giornata.


Arriva il momento di affrontare la risalita. La stanchezza si manifesta fin dai primi passi. La fine polvere sollevata dal terreno s'insinua in ogni piega della pelle combinandosi al sudore. Stremati riusciamo infine a raggiungere la scaletta posta a cavallo della recinzione.
Qualcuno in preda agli spasmi, butta là una frase scontata:
'Non ci ritorno nemmeno morta'
La piccola, ribatte sicura:
'Parla per te. Io ci ritorno!'
 

 

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